“L'ape regina”, così ti chiamò il
maestro. A lui bastò un attimo per capire la tua essenza, a me
probabilmente non è bastata una vita. Ma di te mi rimane la risata
prepotente di chi ha tolto il freno a mano: si lotta dalla nascita e
ci si sfinisce giorno dopo giorno, fino a deporre le armi, fino a
farsi scivolare l'esistenza addosso. Non si vive, non si muore, ci si
lascia trascinare dal turbinio del tempo e si ride, si ride come
facevi tu. A bocca aperta, urlando in una risata tutto il dolore del
mondo. Io, tu, mia madre. Io, tra te e mia madre. Voi legate da
questo cordone invisibile creato dalla malattia, sfacciate e vive nei
ricordi del collegio, nel dolore delle operazioni, nelle corse a
quattro ruote delle corsie degli ospedali, nel fastidio
insopportabile del bruciore dei busti e dei gessi. Infiniti step per
tenersi dritte su due gambe, per far quello che ai molti è concesso
per natura... per sfidarla questa natura. E niente gambe buone a
questo giro per te, e niente genitori né parenti di alcun tipo... ma
la mia famiglia, la mia minuscola, possente, famiglia è stata per te
la conoscenza del calore e dell'affetto. Gli gnocchi di nonna la
domenica (quante infinite ore ti abbiamo aspettato!), i compleanni (i
tuoi regali assurdi), le vacanze al mare (il manto dei tuoi cani
sotto le mie dita)... Tu imprigionata nelle tue gabbie ambulanti ti
reggevi a mia madre che perdeva il suo precarissimo equilibrio,
quante volte ci siamo lasciate andare inermi sul letto?! Noi tre,
ognuna con le sue mancanze e i suoi vuoti incolmabili, ridevamo alla
vita e ci stupivamo di come si potesse esser felici in infiniti modi.
Nonostante tutto.
E' bastato sentire un Dario Fo invecchiato, ma ancora impeccabile, cantare “Ho visto un re” per pensarti...