Ne compio sette. Pesano sulle spalle
come fossero secoli, mi dicono siano solo sette anni e la strada è
lunga davanti a me. Non penso alle forze che ci vorranno, il concetto
di insieme mi crea sconcerto e annichilimento. Un giorno alla volta,
un giorno alla volta...
Vivo al quarto piano di un grosso
palazzo di fronte la villa comunale: è una mansarda, quella mia e di
mia madre, dove si può camminare scalzi sul pavimento di sughero e
dove con un dito si arriva a toccare il soffitto ricoperto di
polistirolo. Mi spaventa la sua grandezza o, semplicemente avverto,
che è uno spazio troppo ampio per due persone soltanto. Questa sua
estensione non fa che sottolineare, nel mio cuore, la mancanza
assoluta. Oggi la casa non ha quell'eco di solitudine a cui sono
abituata, i miei piccoli compagni di scuola riempiono le sue pareti
con urla e corse disperate. La sala è un tripudio di dolci e salati
e mia nonna rimpiazza ogni piccolo “buco” che si crea nei
vassoi... è una sorta di horror vacui il suo, dedicato
esclusivamente al cibo. Io non lo so se sono felice, eppure questa è
la mia festa, questi sono i miei amici, e la tavola è piena dei miei
regali... al senso di profonda angoscia si aggiunge questa sensazione
di ingratitudine per cui vorrei autopunirmi. Il citofono suona e
altre persone entrano a questa festa non festa di cui io sono la
festeggiata inconsapevole. Poi ancora uno scampanellare e, seppur sia
lo stesso suono, io ci riconosco nelle sue vibrazioni il terrore
della disillusione. Osservo nel mio petto quel castello di favola,
fatto di sogni e speranze, che precipita rovinosamente insieme alla
mia serenità. Quella che non riconosco, non conoscendola...
“Questo invitato” non sale, a
“questo invitato” sono io che devo andare incontro. Non lo prendo
l'ascensore, c'ho quattro rampe di scale davanti per togliermi questa
faccia da cera, quest'espressione inespressiva che mi monta in volto
quando la paura mi serra la gola. Tre gradini, due gradini, un
gradino... sfoggio il miglior sorriso che posso avere e rimango
immobile, ferma, sui miei piedi di piombo. Lui dice qualcosa di
spiritoso, ma le parole sfuggono via prima di arrivarmi alle
orecchie... tende verso di me un pacchetto di caramelle gommose e
percepisco, nel marasma delle sensazioni, un “Auguri a pà”.
Afferro il “regalo” e dico “grazie”. Lo dico perché così mi
hanno insegnato, lo dico perché altro non potrei/saprei dire, lo
dico perché poteva anche regalarmi una fabbrica di giocattoli... ma
nulla sarebbe cambiato. L'amore è un regalo che non si può
chiedere, soprattutto se lo si desidera da chi non sa provarlo. Lui
mi prende in giro, prende in giro la piccola che è in me, quella
che, secondo lui, ha abboccato al “giochino del finto regalo”...
e mi passa quel gioco che avevo (forse) detto di volere. Non lo sa,
non lo sa che quella bambina di cui si burla non esiste, non lo sa
che quel “grazie” è un regalo che io faccio a lui, a noi. E' un
“buono” per evitare la catastrofe. E' una resa a qualcosa di
troppo doloroso. E' un “lascia passare” per la sua
superficialità, per il suo egoismo, per la sua presunzione.
E' il mio silenzio... il regalo più
grande per chi non sa ascoltare.
Non ne sono più sette. E tutto è cambiato. Persino il dolore... questo è il vero regalo della vita.