venerdì 24 gennaio 2014

Un regalo chiamato silenzio

Ne compio sette. Pesano sulle spalle come fossero secoli, mi dicono siano solo sette anni e la strada è lunga davanti a me. Non penso alle forze che ci vorranno, il concetto di insieme mi crea sconcerto e annichilimento. Un giorno alla volta, un giorno alla volta...
Vivo al quarto piano di un grosso palazzo di fronte la villa comunale: è una mansarda, quella mia e di mia madre, dove si può camminare scalzi sul pavimento di sughero e dove con un dito si arriva a toccare il soffitto ricoperto di polistirolo. Mi spaventa la sua grandezza o, semplicemente avverto, che è uno spazio troppo ampio per due persone soltanto. Questa sua estensione non fa che sottolineare, nel mio cuore, la mancanza assoluta. Oggi la casa non ha quell'eco di solitudine a cui sono abituata, i miei piccoli compagni di scuola riempiono le sue pareti con urla e corse disperate. La sala è un tripudio di dolci e salati e mia nonna rimpiazza ogni piccolo “buco” che si crea nei vassoi... è una sorta di horror vacui il suo, dedicato esclusivamente al cibo. Io non lo so se sono felice, eppure questa è la mia festa, questi sono i miei amici, e la tavola è piena dei miei regali... al senso di profonda angoscia si aggiunge questa sensazione di ingratitudine per cui vorrei autopunirmi. Il citofono suona e altre persone entrano a questa festa non festa di cui io sono la festeggiata inconsapevole. Poi ancora uno scampanellare e, seppur sia lo stesso suono, io ci riconosco nelle sue vibrazioni il terrore della disillusione. Osservo nel mio petto quel castello di favola, fatto di sogni e speranze, che precipita rovinosamente insieme alla mia serenità. Quella che non riconosco, non conoscendola...
“Questo invitato” non sale, a “questo invitato” sono io che devo andare incontro. Non lo prendo l'ascensore, c'ho quattro rampe di scale davanti per togliermi questa faccia da cera, quest'espressione inespressiva che mi monta in volto quando la paura mi serra la gola. Tre gradini, due gradini, un gradino... sfoggio il miglior sorriso che posso avere e rimango immobile, ferma, sui miei piedi di piombo. Lui dice qualcosa di spiritoso, ma le parole sfuggono via prima di arrivarmi alle orecchie... tende verso di me un pacchetto di caramelle gommose e percepisco, nel marasma delle sensazioni, un “Auguri a pà”. Afferro il “regalo” e dico “grazie”. Lo dico perché così mi hanno insegnato, lo dico perché altro non potrei/saprei dire, lo dico perché poteva anche regalarmi una fabbrica di giocattoli... ma nulla sarebbe cambiato. L'amore è un regalo che non si può chiedere, soprattutto se lo si desidera da chi non sa provarlo. Lui mi prende in giro, prende in giro la piccola che è in me, quella che, secondo lui, ha abboccato al “giochino del finto regalo”... e mi passa quel gioco che avevo (forse) detto di volere. Non lo sa, non lo sa che quella bambina di cui si burla non esiste, non lo sa che quel “grazie” è un regalo che io faccio a lui, a noi. E' un “buono” per evitare la catastrofe. E' una resa a qualcosa di troppo doloroso. E' un “lascia passare” per la sua superficialità, per il suo egoismo, per la sua presunzione.

E' il mio silenzio... il regalo più grande per chi non sa ascoltare.  

Non ne sono più sette. E tutto è cambiato. Persino il dolore... questo è il vero regalo della vita.

martedì 14 gennaio 2014

Sunshine4Palestine

Alla fine non avrei fatto nulla, come tutti i sabati.
Che se non lavoro è il momento giusto per riposare, stare al caldo, leggere un libro, cucinare qualcosa di decente e guardare un film...
E poi ti chiama quell'amica, l'amica che negli ultimi mesi ti ha reso un po più sopportabile questa città, questa solitudine ovattata, in sordina. Ti dice che... "Ti ricordi sqwerez?Ha inoltrato una mail, c'è una serata di beneficenza, ci sarà musica in un capannone all'arcisvolta. Lavori? Andiamo?"
E io sqwerez lo ricordavo eccome, anche se manco da tanto sul web, anche se non avevo mai avuto il piacere di incontrarlo (nonostante fossi ad uno schioppo dalla capitale) dal vivo. Ricordavo soprattutto i suoi post, le sue missioni, le terre lontane baciate dal sole, calpestate dagli uomini diversi e sempre uguali, devastate dalla povertà, strabordanti di vita.
La musica è quella che ti fa battere i piedi e le mani, la birra è quella che scende facile. In questi casi è l'unione delle cose (e l'emotività delle persone) che rende tutto tanto, miracolosamente, naturale. Come entrare in un posto nuovo, in mezzo a tanta gente... e sentirti un po a casa. Sai già che nessuno è lì a guardare come ti muovi tu, cosa dirai, siamo lì per "Sunshine4Palestine", a conti fatti non siamo noi che facciamo bene alla serata, ma è la serata che fa bene a noi. Le situazioni spontanee sfornano tutte ciambelle con il buco, profumate, gustose. Giuseppe ha addosso l'emozione di chi crede davvero in qualcosa, di chi per "quel qualcosa" si macina i km, e si mangia la polvere, e si perde il sonno.
Bhè, io ve lo riassumo in due parole (ma non ho messo il link del blog a caso): all'ospedale di Jenin, a Gaza, si sta istallando un impianto fotovoltaico che produrrà energia per 24 ore al giorno (attualmente hanno corrente per sole 4 ore giornaliere), energia necessaria per assicurare ai malati gli adeguati servizi sanitari.
Si seguono certe cose, per scoprire che, ogni tanto, le storie vanno anche a buon fine.
(E se si contribuisce a farle andare per il verso giusto, autopacca sulla spalla).



venerdì 10 gennaio 2014

Tendenzialmente arranco

Grigio, monocolore. Costante, fedele.
La colazione seduta (mantenere/preservare le umane abitudini) e la doccia tiepida (esser prontissimi a rinfilarsi sotto le coperte). “Prendere la rincorsa”, come quelle macchinine che quando le tiri indietro, poi, per forza d'inerzia, si sparano il loro percorso mirato.
Passo svelto svelto svelto e... “prendo questo?!”... “no l'altro, che c'ha il riscaldamento”.
Permesso - mi scusi - ehm l'ombrello, può chiuderlo?! Siamo su di un tram, qui dentro non piove!- Come? No, è tra due fermate - Prego si sieda lei signora (esser troppo giovane per non dar precedenza agli anziani, esser troppo cresciuti per non far sedere bambini dall'equilibrio precario).
E il ragazzo con la felpa viola che annuncia le fermate al posto dell'altoparlante, mastica il cordone del suo cappuccio e si complimenta ad ogni stop. Mette gli occhi storti, sfoggia denti gialli.
-Non lo guardare - non ci pensare - non devi farti dilaniare il cuore da tutti gli emarginati.
Odore acre, fili di cellulari, mani aggrappate su maniglie improvvisate e su sedili colmi di vita, equilibri improbabili di corpi ammassati.
Il “quark”, io ho imparato in pochi mesi ad occupare quel posto lì -sfido chiunque ad identificarmi-
E cambio metro, e cambio bus.

Pochi metri, poi si che si dovrà correre fino a notte...

lunedì 6 gennaio 2014

Che lo spettacolo abbia inizio


Il numero del clown gira tutto intorno alla pista.
Innumerevoli varianti portano inevitabilmente a ripercorrere gli stessi passi che, nonostante tutto, rendono lo spettacolo imprevedibile, sorprendente.
E' questo il numero che tutti aspettano e quando il clown entra in scena, le risa riempiono l'aria.
A spettacolo finito però, il numero del clown ci lascia addosso quel sorriso amaro di chi ha saputo riconoscere, dentro un percorso tutt'altro che casuale, il pagliaccio che alberga in ognuno di noi.

Ho riconosciuto nel clown che è in me la mia parte più vera, gli ho cambiato “vestito” e ora lo faccio cantare, ballare, recitare.
Lo faccio inciampare, cadere, rialzare.
Insomma, gli lascio fare quello in cui è più bravo... esser se stesso.