venerdì 12 dicembre 2014

Waiting for Christmas

Il Natale è una festività crudele, l'ho pensato qualche giorno fa girando tra le bancarelle di questa città. Il Natale non lo puoi ignorare, ti gira intorno con i suoni, i colori, gli odori... sfido chiunque a farselo scivolare addosso. Soprattutto se l'hai amato. Una Pasqua la potrei quasi saltare a piedi pari, chiudo un occhio su di una colomba, ignoro un uovo di cioccolato al supermercato, ma il Natale... come si fa con il Natale?! La gente è stramaledettamente felice di comprare/mangiare/stare insieme. Le persone cercano tra le bancarelle il giusto regalo, io cerco dentro la festività le persone. Quelle che se ne sono andate una dopo l'altra, quelle che potevano pure andare via un po alla volta... che mica si fa così?! Mica si va via in gruppo. Non vale. E io mo che me ne faccio del Natale?
E insomma ero immersa nella malinconia soffocante di questi pensieri quando mi sono sentita felice, felice di aver avuto la forza di cambiare (ancora una volta) le cose, felice di essermi venuta a prendere ciò in cui credevo, di aver trovato una dimensione che mi faccia star bene nel corpo e nella mente. E sarà pure un Natale un pò più vuoto (un bel po più vuoto), ma è un Natale che io mi sono sudata e guadagnata. Oggi festeggio il Natale che vorrei, quello che mi sto costruendo.


lunedì 10 novembre 2014

Forse le lucciole non si amano più (cit.)

Sento mia questa nuova, raccolta, realtà. Ed è forse stato necessario saltare da un minuscolo paese ad una grande città per capire che la giusta dimensione, per me, sta nella via di mezzo. E' questa una città che regala molte realtà senza toglierti di dosso l'umana sopportazione del vivere. Le distanze che si accorciano, i luoghi che, riproponendosi, diventano quotidianità. Come piace a me. Ognuno, alla fine, deve trovare la sua dimensione. Tra le varie “comodità” ci sono le sale cinema, alcune delle quali, molto vicine casa mia. Non di rado, quindi, ci si concede un film. La scorsa settimana proiettavano “La storia della principessa splendente” del maestro Takahata e incuriosita sono andata a vederlo... amo questo genere d'animazione, ma sono probabilmente assuefatta dal grande Miyazaki e ora, a distanza di giorni (devo pensarci sempre un po su), posso definirla una bella favola, niente di più. Ma non è del film che voglio parlare, è di una scena quasi surreale che si è venuta a creare in sala a metà proiezione. Diciamo che già dal principio avevo percepito di essere tra un “pubblico” alquanto particolare e la mia perspicacia mi aveva avvertito che non sarebbero state due ore tranquille. Avevo affianco a me una signora che accompagnava una ragazza con problemi psichici molto evidenti che sin dai primi minuti di pellicola indicava lo schermo facendo versi molto simili a miagolii. Fin qui, tutto normale, di fronte a determinati problemi non devono esistere intolleranze o fastidi di alcun genere. Ed infatti la ragazza, a mio avviso, era la più sana della sala. Davanti a me un gruppo di tre uomini (sembravano ben addentrati in quel genere di filmografia) ridevano a pieno petto alle scene più drammatiche e profonde. Tanto che ho cominciato a chiedere a me stessa se non mi stesse sfuggendo il senso del film. Lateralmente sulla mia sinistra, qualche fila più su, un uomo di mezza età ripeteva a gran voce le frasi più significative della principessa splendente. Non so se siete mai capitati in una di quelle scene dove voi siete nel mezzo e tutto diventa così paradossale e assurdo che tutto, ma dico proprio tutto, perde il suo senso logico e lineare. A metà film la signora che è affianco a me tira fuori il suo cellulare (in modalità silenziosa) dalla borsa e attiva il display luminoso, lo avesse mai fatto... il tipo “pappagallo” qualche fila più su ha cominciato ad urlare (urlare vuol dire urlare) “spegnere i cellulari!” “spegnere i cellulari!” “spegnere i cellulari!”... sicché la tipa affianco a me si è sentita leggermente chiamata in causa e gli ha urlato di risposta “è silenzioso! Si faccia i cazzi suoi!”. Da lì la situazione è degenerata ad una velocità supersonica, la gente “normale” in sala ha cominciato a coreggiare “schhhhhhhhhh....schhhhhhhh...schhhhhh”. Io non me la sono sentita, pur volendo non sarei riuscita a proferire alcun suono tanto ero allucinata. Inconsapevole per giunta che il belo stava proprio per arrivare... uno dei tre uomini seduti davanti a me si alza in piedi, ha le mani poggiate sui fianchi e fissando l'intero pubblico (tanto per non sbagliarsi suppongo) urla a gran voce: “la finite o vi devo spaccare la faccia a tutti?!”. Io mi sono appiattita sulla mia poltrona come mai avevo fatto nemmeno nel banco di scuola quando iniziavano le interrogazioni. Per un attimo ho anche meditato di mollare la sala e rinunciare all'altra metà del film. Ma poi ho pensato che non volevo rinunciarci e mi è salita una rabbia feroce, ero al cinema perché volevo “staccare” un po il cervello dalla vita reale, perché volevo “calarmi” in una favola che mi portasse da qualche altra parte. Ed invece no, lo spettacolo più bello (che vuol dire più brutto) me lo regala sempre il genere umano nella sua più profonda e squallida pochezza.
Ma dove si deve andare per sognare un po?!


venerdì 24 ottobre 2014

Virgola

Io manco so chi è Bruno Lauzi, ma deve essere uno che sa il fatto suo. Ha scritto questa canzone qui che io ascolto seduta in ginocchio, per terra, davanti la radio di nonna e nonno. Mi rigiro tra le mani le cassette chiuse in una scatola di scarpe ed alla fine scelgo sempre questa, ha la scritta "Daiana" su di un lato, a pennarello. "Metti quella che ci sta tua madre che presenta le canzoni alla radio...", mia nonna ha uno strano modo di esternare il suo orgoglio familiare, di solito lo fa di spalle, in piedi, davanti ai fornelli. Forse perché è sempre lì. Infilo la cassetta e premo il primo pulsante a sinistra come mi ha insegnato nonno, ci stanno quei 4/5 secondi di silenzio dove a me tutto sembra galleggiare nell'aria. Persino mia nonna mi pare più leggera. Le cose tutt'intorno ricominciano ad avere il loro peso quando riconosco "quella" voce, è più giovanile, è più squillante, è la voce guida. Non so ancora che sarà ciò che cercherò sempre quando sarò triste, nella mia vita.

Ero in libreria che giravo tra gli scaffali di libri per bambini e l'occhio mi è cascato su di una copertina, c'era scritto "Virgola". Una parola è stata capace di riaprire un cassetto della mia memoria ormai chiuso da chissà quanto tempo. E lo capite quanto sono belli i ricordi?! Loro sono lì, fanno finta di esser stati dimenticati, quando in realtà si auto custodiscono in quel labirintico posto che è la nostra memoria. Quando uno di loro "risbuca" fuori io mi sento un pò più ricca, un pò più salda, un pò più felice.

venerdì 10 ottobre 2014

Si tratta di sopravvivenza

Uso la tecnologia.
La uso attraverso il cellulare, il computer, tutti i mezzi che in qualche modo mi semplificano la vita.
Semplificano, appunto.
La luce no, la luce la voglio accendere e spegnere io. 
Altrimenti vi prego, fatemi capire qual'è il metro di misura utilizzato per calcolare la durata della luce automatica in un bagno pubblico. Posso dire con certezza che non è il tempo medio di una minzione normale. E non è giusto (e non è nemmeno comodo) dover salutare il soffitto quando si è in bilico per  far centro e mantenere una dignità igienica.
Così, volevo dirlo da un po.

lunedì 8 settembre 2014

Io volevo finire in te come un secondo respiro

Estremo saluto è l'amore,
come una mano che prende l'ultima foglia
e la divora come fosse anima.
Estremo saluto è il tuo bacio.
Io volevo finire in te come un secondo respiro.
Ti ho scelto per la mia morte;
avevo capito in un attimo
che il tuo bacio
mi avrebbe ucciso.

Alda Merini



mercoledì 13 agosto 2014

Al "quore" la "q" non va, ma ci vuole qualità...


E' che c'è un tempo ballerino che va a passi di danza con la mia cervicale.
E la notte sono una corda di violino indispettita che non produce una sola nota.
Ma è bella questa città semi vuota, basta poco per strapparsi di bocca un sorriso.
A queste sinapsi facciamogli saltare a piedi pari i neuroni, spediamole dritte dritte al "quore".
Un errore voluto è una rivoluzione del concetto che si vuol trasmettere :)

martedì 8 luglio 2014

L'ape regina

“L'ape regina”, così ti chiamò il maestro. A lui bastò un attimo per capire la tua essenza, a me probabilmente non è bastata una vita. Ma di te mi rimane la risata prepotente di chi ha tolto il freno a mano: si lotta dalla nascita e ci si sfinisce giorno dopo giorno, fino a deporre le armi, fino a farsi scivolare l'esistenza addosso. Non si vive, non si muore, ci si lascia trascinare dal turbinio del tempo e si ride, si ride come facevi tu. A bocca aperta, urlando in una risata tutto il dolore del mondo. Io, tu, mia madre. Io, tra te e mia madre. Voi legate da questo cordone invisibile creato dalla malattia, sfacciate e vive nei ricordi del collegio, nel dolore delle operazioni, nelle corse a quattro ruote delle corsie degli ospedali, nel fastidio insopportabile del bruciore dei busti e dei gessi. Infiniti step per tenersi dritte su due gambe, per far quello che ai molti è concesso per natura... per sfidarla questa natura. E niente gambe buone a questo giro per te, e niente genitori né parenti di alcun tipo... ma la mia famiglia, la mia minuscola, possente, famiglia è stata per te la conoscenza del calore e dell'affetto. Gli gnocchi di nonna la domenica (quante infinite ore ti abbiamo aspettato!), i compleanni (i tuoi regali assurdi), le vacanze al mare (il manto dei tuoi cani sotto le mie dita)... Tu imprigionata nelle tue gabbie ambulanti ti reggevi a mia madre che perdeva il suo precarissimo equilibrio, quante volte ci siamo lasciate andare inermi sul letto?! Noi tre, ognuna con le sue mancanze e i suoi vuoti incolmabili, ridevamo alla vita e ci stupivamo di come si potesse esser felici in infiniti modi. Nonostante tutto.
E' bastato sentire un Dario Fo invecchiato, ma ancora impeccabile, cantare “Ho visto un re” per pensarti...


venerdì 4 luglio 2014

- Le nuvole -

Al guardaroba. Solo al guardaroba.
E' così piccola che mi arriva a malapena alla spalla, alle sue ossa appartiene quella minuzia offesa, riconoscibile da ogni senso. A me sembra un fiore mai sbocciato, racchiude in se tutto lo splendore della natura, madre natura che rimarrà celata per un tempo infinito. Quello della malattia. Nei suoi gesti fieri riconosco l'importanza di avere un ruolo, un obiettivo da seguire, giorno per giorno... legge fumetti - “dodici pagine, sono stanca davvero! - , mangia merende - che immagino confezionate dalle mani di una madre con occhi umidi, protettiva, rassegnata - , ride di ciò che lei stessa dice - e capisce- e io tengo incollata la mia mano lungo il fianco per impedirle quella carezza fuori luogo. Probabilmente un bisogno solo mio, dettato da un egoismo travestito da compassione. E poi canta, canta canzoni che io non conosco - che forse inventa - che i molti non ascoltano, che alcuni non sopportano. Ed è un'unica, lunga, melodia che non ha inizio e non ha fine, è un'amica - forse la sola?! - che le tiene compagnia in quel posto labirintico che è il suo pensiero. Ogni volta come fosse la prima, ripeto a me stessa che non c'è nulla da capire, che quel che io percepisco come dolore, solitudine, impotenza, può esser un vivere quieto, sereno. Nelle infinite combinazioni noi andiamo, veniamo, ci mischiamo gli umori... come le nuvole di De Andrè - “per una vera, mille sono finte” - e rischi di “non riconoscere più il posto dove stai”.

- E chi sei -

mercoledì 18 giugno 2014

domenica 25 maggio 2014

raccolgo briciole

“Libertà l'ho vista dormire nei campi coltivati, a cielo e denaro, a cielo ed amore, protetta da un filo spinato...”
Io rivedo e ritrovo ovunque le cose che amo. E succede che giro in questa città che mi è ancora del tutto sconosciuta -e che probabilmente non conoscerò mai davvero, abbastanza- e mi stupisca di due corpi sovrapposti, distesi su di un erba accecante di vita. E' il vortice del bene, è un senso di vivere compiuto, un bisogno bilaterale di unione... è “solo” un abbraccio.

E' l'abbraccio di due mani enormi, hanno vene a rilievo che sembrano canali d'acqua su di un campo coltivato. Ne hanno lo stesso profumo. Io ci sento dentro la vita, per il loro ricordo varrà sempre la pena di vivere.
E' l'abbraccio di una donna giovanissima, braccia sottili e olivastre che profumano di tabacco e sicurezza. Ogni notte le cercherò invano, sono e saranno sempre lì per me.
E' l'abbraccio di un manto caldo e soffice, esso cresce sul mio petto giorno dopo giorno. Non ci sarà mai distacco per due cuori che hanno battuto all'unisono.
E' l'abbraccio dell'addio, quello dato “in tempo” o “troppo tardi”. Quello che ha un inizio e mai una fine.
E' l'abbraccio autonomo, quello della sopravvivenza giornaliera.

Mi passano tutti davanti i miei abbracci e nel vederli addosso agli altri mi scappa un sorriso.

Manca solo un abbraccio, ora.  

martedì 29 aprile 2014

...e non smetto di volere

Sta nel soffio del respiro quel che cerco.
Le parole impolverano la mente, rigano l'anima, scuciono il cuore.
Sta nei gesti quel che voglio.
Le cose materiali riempiono buchi, non mancanze, occupano volumi di spazi sbagliati. Il vuoto è lì dove le misure nulla possono.
Sta nello sguardo sincero la mia voglia di sosta e riposo.
Le mezze verità hanno la presunzione di additare le menzogne, non riconoscono loro stesse nel riflesso.
Sta nella protezione il mio nido.
Le mancate sensibilità sono richieste d'amore immeritate, scambi poco equi di animi feroci, in subbuglio.

Il libro che giace nel mio petto è fitto, usurato, scritto con una pessima calligrafia. Vi si trovano ricordi lontani, alcuni rimpianti, molti sorrisi.

Sta nelle pagine bianche il mio desiderio di vita.

domenica 13 aprile 2014

danza solitaria

Il cancello chiuso, fuori orario visita. Ne sono consapevole... e suono. Mi aprono subito, forse troppo presto, contavo in un'attesa più lunga. Quel tanto che basta per immagazzinare aria, questione di sopravvivenza emotiva. Ora manco da molto, mi sembra un tempo così dilatato questo che ci separa... da quando lei non c'è più, da quando la vita ha preso ritmi diversi, da quando nuovi vuoti si sono creati e mai più si riempiranno. E io lontana, e poi vicina, e poi lontana ancora... in questa danza solitaria che non trova una pista da ballo dove compiersi. Una volta per tutte. E poi eccoli, seduti ai tavoli giocano il gioco bizzarro della sopravvivenza dove ognuno fa la sua mossa. Li vedo tutti i miei ballerini, sono qui per ricordarmi che non si smette mai di piroettare, che fai un giro su te stessa e per un attimo sembra tu vada a tempo con un'altra persona, poi torni a danzare da sola e via così, finché l'anima regge allo scompartimento del respiro. Nei loro gesti, nei respiri affannati, nelle parole trascinate, ritrovo per un attimo tutto ciò che ho perso. 
Bacio, abbraccio, stringo mani calde, mani fredde, occhi ciechi, cuori grandi.

giovedì 27 marzo 2014

"...davanti all'estrema nemica non serve coraggio o fatica..."

Farina cccv (chell ch 'c vò), equivalente di qb (quanto basta), concetto astratto di quantità immaginaria per cuochi liberalisti, rivoluzionari, innovativi, poco propensi ad attenersi alle regole.

Uova 4/5/6... quant'è vero che i numeri sono infiniti. A casa nostra vinceva l'interpretazione personale. In nome dell'individuo.

Zucchero na 'nzign (un po), non troppo, non poco, alternativa a cccv.

Fecola ccsr (chell ch 's raccoj), potrebbe apparire, di primo acchitto, un quantitativo indefinito. Non c'è in natura metro di misura più preciso, “quella che si raccoglie” è una quantità che decide l'impasto. Noi siamo spettatori della ricetta che si autocompie.

Latte nu bicchierucc (un bicchiere di piccole dimensioni), a casa nostra non è mai esistito contenitore più piccolo del boccale da vino. Ci sono misteri che rimangono tali anche all'interno del nucleo familiare.

Limone solo buccia, chiedi a Stefano... che da noi voleva dire, non ti fare fregare dal fruttivendolo... “fatti dare un limone buono”.

Lievito “angeli”, quando la qualità ha più importanza della quantità.

180° (a metà che sennò s'abbruc), 45 minuti.

Mi risbuchi nella cartellina dei dolci, pure qui. Da viva saresti stata capace di schiattare in un dipinto (tanto non riuscivi ad esser felice, mai), ora che sei morta... sei ovunque. Ho sentito il profumo della tua ciambella, come potrei mai riuscire a rifarla uguale?! E' un'alchimia di quantità e ingredienti introvabili (Stefano ha chiuso ormai).
Prepara il ciambellone nò.
Pensa a tutto tu.



giovedì 27 febbraio 2014

Sei quercia nei miei pensieri

Ti riportiamo a casa.
E tu sai che questa è la via del ritorno: riconosci gli odori ed i colori, tutto intorno ti urla familiarità. Tutto intorno è intatto, nulla più è come prima. Manchi tu nel tuo corpo stravolto, e c'è la casa, e c'è la terra, e non c'è più la tua abitudine. La tua vita è fuggita via, s'è portata dietro tutto quello che ti rendeva un uomo. Un uomo nella sua casa.
Io, seduta, guardo te, cerco nei tuoi occhi quella lucidità che è sempre stata ancora di salvezza. Per te, per me, per questa famiglia striminzita, minuscola, retta da quattro anime in croce. 
Potentissimo legame di micromondi assoluti. 
Fai cenno di si con la testa, sei arrivato e ti sento perso, lontanissimo. Vorrei cavarmi gli occhi, il cuore, la mente, vorrei fartene dono, così che tu possa ancora una volta, una volta soltanto, “sentire” il tuo mondo. Così stringo la tua mano, è la stessa in cui mi sono rintanata innumerevoli volte, ci ho versato lacrime, ci ho riso di gioia pura. 
Non ti lascio. 
Le vedi queste mura porose? E' la tana che tu hai costruito e mantenuto con infinita cura, giorno dopo giorno. I fatti hanno riempito le nostre esistenze, i silenzi erano conferme di cose già acquisite, la “casa” eravamo Noi.

E tu, che sei partito molto prima del tuo corpo, hai portato via con te la quiete del mio nido e quel senso di pace che solo le radici profonde, sanno dare.  

martedì 11 febbraio 2014

Le cose che contano

La luce gialla, quella che “abita” la casa. Quella che illumina il quadro vivo, in movimento. Tutto scorre dentro una finestra, tutto può essere il sunto perfetto, completo, di un'intera esistenza.
I capelli non sono mai in ordine, li tira dietro, li imprigiona nel fermaglio di metallo. E' una sorta di autopunizione, un rimprovero costante a se stessa, per non riuscire ad essere “in ordine”, per non essere “perfetta” come la tipa del terzo piano (le donne che dominano l'umidità ed il tempo attraverso i loro capelli, sono davvero insopportabili). Non sa di essere bella e, probabilmente, se ne fosse consapevole, smetterebbe di esserlo. La bellezza sta in quelle cose vere, delicate e inconsapevoli. Parla al canarino che abita nella gabbia verde, sgrana gli occhi davanti la televisione, sorride al figlio. Sempre. La sera, quando la luce gialla chiude gli occhi, fuma la sua sigaretta appoggiata con i gomiti sul davanzale. E canta. Lo fa piano, ma con chiarezza... una bimba canta la canzone antica della donnaccia, quello che ancor non sai tu lo imparerai solo qui tra le mie braccia”... Ha passato la sua vita a non far rumore, ed è riuscita a smuovere grandi cose. I suoi giorni sono andati “storti”- come i suoi passi - uno dopo l'altro, e la sua fermezza non ha vacillato mai.

E' giovane, è sola, è l'equilibrio più azzeccato che la natura sia riuscita a creare.

martedì 4 febbraio 2014

Te lo dirò in un'altra vita, quando saremo tutti e due gatti


A volte cerco di guardare nella loro direzione e non ne trovo mai la fine.
E' così che dovrei fare... per potermi lasciare alle spalle.

venerdì 24 gennaio 2014

Un regalo chiamato silenzio

Ne compio sette. Pesano sulle spalle come fossero secoli, mi dicono siano solo sette anni e la strada è lunga davanti a me. Non penso alle forze che ci vorranno, il concetto di insieme mi crea sconcerto e annichilimento. Un giorno alla volta, un giorno alla volta...
Vivo al quarto piano di un grosso palazzo di fronte la villa comunale: è una mansarda, quella mia e di mia madre, dove si può camminare scalzi sul pavimento di sughero e dove con un dito si arriva a toccare il soffitto ricoperto di polistirolo. Mi spaventa la sua grandezza o, semplicemente avverto, che è uno spazio troppo ampio per due persone soltanto. Questa sua estensione non fa che sottolineare, nel mio cuore, la mancanza assoluta. Oggi la casa non ha quell'eco di solitudine a cui sono abituata, i miei piccoli compagni di scuola riempiono le sue pareti con urla e corse disperate. La sala è un tripudio di dolci e salati e mia nonna rimpiazza ogni piccolo “buco” che si crea nei vassoi... è una sorta di horror vacui il suo, dedicato esclusivamente al cibo. Io non lo so se sono felice, eppure questa è la mia festa, questi sono i miei amici, e la tavola è piena dei miei regali... al senso di profonda angoscia si aggiunge questa sensazione di ingratitudine per cui vorrei autopunirmi. Il citofono suona e altre persone entrano a questa festa non festa di cui io sono la festeggiata inconsapevole. Poi ancora uno scampanellare e, seppur sia lo stesso suono, io ci riconosco nelle sue vibrazioni il terrore della disillusione. Osservo nel mio petto quel castello di favola, fatto di sogni e speranze, che precipita rovinosamente insieme alla mia serenità. Quella che non riconosco, non conoscendola...
“Questo invitato” non sale, a “questo invitato” sono io che devo andare incontro. Non lo prendo l'ascensore, c'ho quattro rampe di scale davanti per togliermi questa faccia da cera, quest'espressione inespressiva che mi monta in volto quando la paura mi serra la gola. Tre gradini, due gradini, un gradino... sfoggio il miglior sorriso che posso avere e rimango immobile, ferma, sui miei piedi di piombo. Lui dice qualcosa di spiritoso, ma le parole sfuggono via prima di arrivarmi alle orecchie... tende verso di me un pacchetto di caramelle gommose e percepisco, nel marasma delle sensazioni, un “Auguri a pà”. Afferro il “regalo” e dico “grazie”. Lo dico perché così mi hanno insegnato, lo dico perché altro non potrei/saprei dire, lo dico perché poteva anche regalarmi una fabbrica di giocattoli... ma nulla sarebbe cambiato. L'amore è un regalo che non si può chiedere, soprattutto se lo si desidera da chi non sa provarlo. Lui mi prende in giro, prende in giro la piccola che è in me, quella che, secondo lui, ha abboccato al “giochino del finto regalo”... e mi passa quel gioco che avevo (forse) detto di volere. Non lo sa, non lo sa che quella bambina di cui si burla non esiste, non lo sa che quel “grazie” è un regalo che io faccio a lui, a noi. E' un “buono” per evitare la catastrofe. E' una resa a qualcosa di troppo doloroso. E' un “lascia passare” per la sua superficialità, per il suo egoismo, per la sua presunzione.

E' il mio silenzio... il regalo più grande per chi non sa ascoltare.  

Non ne sono più sette. E tutto è cambiato. Persino il dolore... questo è il vero regalo della vita.

martedì 14 gennaio 2014

Sunshine4Palestine

Alla fine non avrei fatto nulla, come tutti i sabati.
Che se non lavoro è il momento giusto per riposare, stare al caldo, leggere un libro, cucinare qualcosa di decente e guardare un film...
E poi ti chiama quell'amica, l'amica che negli ultimi mesi ti ha reso un po più sopportabile questa città, questa solitudine ovattata, in sordina. Ti dice che... "Ti ricordi sqwerez?Ha inoltrato una mail, c'è una serata di beneficenza, ci sarà musica in un capannone all'arcisvolta. Lavori? Andiamo?"
E io sqwerez lo ricordavo eccome, anche se manco da tanto sul web, anche se non avevo mai avuto il piacere di incontrarlo (nonostante fossi ad uno schioppo dalla capitale) dal vivo. Ricordavo soprattutto i suoi post, le sue missioni, le terre lontane baciate dal sole, calpestate dagli uomini diversi e sempre uguali, devastate dalla povertà, strabordanti di vita.
La musica è quella che ti fa battere i piedi e le mani, la birra è quella che scende facile. In questi casi è l'unione delle cose (e l'emotività delle persone) che rende tutto tanto, miracolosamente, naturale. Come entrare in un posto nuovo, in mezzo a tanta gente... e sentirti un po a casa. Sai già che nessuno è lì a guardare come ti muovi tu, cosa dirai, siamo lì per "Sunshine4Palestine", a conti fatti non siamo noi che facciamo bene alla serata, ma è la serata che fa bene a noi. Le situazioni spontanee sfornano tutte ciambelle con il buco, profumate, gustose. Giuseppe ha addosso l'emozione di chi crede davvero in qualcosa, di chi per "quel qualcosa" si macina i km, e si mangia la polvere, e si perde il sonno.
Bhè, io ve lo riassumo in due parole (ma non ho messo il link del blog a caso): all'ospedale di Jenin, a Gaza, si sta istallando un impianto fotovoltaico che produrrà energia per 24 ore al giorno (attualmente hanno corrente per sole 4 ore giornaliere), energia necessaria per assicurare ai malati gli adeguati servizi sanitari.
Si seguono certe cose, per scoprire che, ogni tanto, le storie vanno anche a buon fine.
(E se si contribuisce a farle andare per il verso giusto, autopacca sulla spalla).



venerdì 10 gennaio 2014

Tendenzialmente arranco

Grigio, monocolore. Costante, fedele.
La colazione seduta (mantenere/preservare le umane abitudini) e la doccia tiepida (esser prontissimi a rinfilarsi sotto le coperte). “Prendere la rincorsa”, come quelle macchinine che quando le tiri indietro, poi, per forza d'inerzia, si sparano il loro percorso mirato.
Passo svelto svelto svelto e... “prendo questo?!”... “no l'altro, che c'ha il riscaldamento”.
Permesso - mi scusi - ehm l'ombrello, può chiuderlo?! Siamo su di un tram, qui dentro non piove!- Come? No, è tra due fermate - Prego si sieda lei signora (esser troppo giovane per non dar precedenza agli anziani, esser troppo cresciuti per non far sedere bambini dall'equilibrio precario).
E il ragazzo con la felpa viola che annuncia le fermate al posto dell'altoparlante, mastica il cordone del suo cappuccio e si complimenta ad ogni stop. Mette gli occhi storti, sfoggia denti gialli.
-Non lo guardare - non ci pensare - non devi farti dilaniare il cuore da tutti gli emarginati.
Odore acre, fili di cellulari, mani aggrappate su maniglie improvvisate e su sedili colmi di vita, equilibri improbabili di corpi ammassati.
Il “quark”, io ho imparato in pochi mesi ad occupare quel posto lì -sfido chiunque ad identificarmi-
E cambio metro, e cambio bus.

Pochi metri, poi si che si dovrà correre fino a notte...

lunedì 6 gennaio 2014

Che lo spettacolo abbia inizio


Il numero del clown gira tutto intorno alla pista.
Innumerevoli varianti portano inevitabilmente a ripercorrere gli stessi passi che, nonostante tutto, rendono lo spettacolo imprevedibile, sorprendente.
E' questo il numero che tutti aspettano e quando il clown entra in scena, le risa riempiono l'aria.
A spettacolo finito però, il numero del clown ci lascia addosso quel sorriso amaro di chi ha saputo riconoscere, dentro un percorso tutt'altro che casuale, il pagliaccio che alberga in ognuno di noi.

Ho riconosciuto nel clown che è in me la mia parte più vera, gli ho cambiato “vestito” e ora lo faccio cantare, ballare, recitare.
Lo faccio inciampare, cadere, rialzare.
Insomma, gli lascio fare quello in cui è più bravo... esser se stesso.